Mino Maccari: "Il Selvaggio" tra fascismo e "Strapaese" (Francesco Salvi)
Renzo De Felice distingue nell’ambito del fascismo, tra fascismo- movimento e fascismo-regime; il primo fu caratterizzato da forti istanze rivoluzionarie ed ebbe aspirazioni fortemente rinnovatrici, il secondo al contrario fu volto alla conservazione e costituì quel complesso di modi, d’abitudini d’istituzioni attraverso il quale a partire dal 1925-26, il fascismo movimento si trasformò in regime riducendosi in pratica in un blocco d’ordine e sostituendo l’aspetto rivoluzionario con una politica volta al conservatorismo, al compromesso, ed al trasformismo: “Il vecchio regime tradizionale sia pure in camicia nera”. Il Selvaggio di Mino Maccari è senza dubbio riconducibile al fascismo-movimento di cui costituisce una delle voci più originali e veementi, soprattutto negli anni colligiani della rivista. Il Selvaggio appare subito un periodico d’azione politica e culturale che si proponeva di esprimere la spinta rinnovatrice e rivoluzionaria della provincia. Maccari è tra i primi squadristi di Mussolini. “mi sono azzuffato con socialisti e comunisti, le ho date e le ho prese” Dice lo stesso Maccari e prosegue“Sono entrato in una bettola dove rosso non è solo il vino, ne è seguita una zuffa tale che i contendenti sono finiti sotto le grinfie del farmacista, l’unica consolazione è stata che per ricucire il capo spaccato dell’avversario ci era voluto più filo che per il mio”. Eppure il nemico principale di Maccari non sono né i comunisti né i socialisti, ma lo stato liberale. All’indomani della marcia su Roma Maccari esulta:
Quando l’uva bollì nei tini e scarlatti si fecero i pampini noi squadristi di Mussolini ci adunammo in neri manipoli e le tube degli uomini d’ordine finalmente volarono in tricioli
Fin dall’inizio la battaglia della rivista è rivolta contro lo stato liberale protagonista in negativo dell’assoluta inadeguatezza sia nella conduzione della grande guerra (basti pensare alle disfatte dove persero la vita non meno di 600 mila soldati), sia della conduzione dei trattati di pace di Versailles dove si parlò di vittoria mutilata. Sotto la testata si definisce “battagliero fascista” e sopra porta il motto “marciare e non marcire” come incitamento ai rivoluzionari a farsi sempre trovare pronti in armi contro l’Italia dei conservatori. L’adesione al fascismo è assoluta e incondizionata. Mino Maccari, l’uomo forte del fascismo colligiano elesse come compagni di viaggio un uomo di Poggibonsi Angiolo Bencini detto Giannaccia e uno di Monteriggioni Archimede Callaioli detto Mede entrambi figure di spicco dello squadrismo locale. Il primo, Giannaccia, falsificò i documenti (era troppo giovane per partire per il fronte) e prese parte alla Grande Guerra; tornato in Valdelsa iniziò la sua rivoluzione a base d’olio di ricino e manganellate e arruolatosi volontario morì nella guerra in Grecia. Il secondo, Mede, detto anche Poca Legge, al contrario di Giannaccia, in un primo tempo riuscì ad evitare la guerra, ma non per molto tempo. Arruolato combatté sull’altipiano di Asiago ed arrivò a comandare gli Arditi. Tornato dalla guerra aderì nel 1921 al fascismo e a Colle conobbe Maccari. Ai tre si unì anche la figura di un barrocciaio Armando Salvi con cui Maccari intrecciò un forte amicizia. Il pittore dipingeva vicino alla sua casa al ponte di San Marziale, Salvi, detto il Bove per la sua massiccia corporatura, passava con il suo barroccio e guardava Maccari in cagnesco perché indossava la camicia nera. Ma poi anche il Bove la indossò “anche meglio di me” dice Maccari. Armando Salvi morì poi tragicamente nel 1934 e Maccari dedicò lui un commosso articolo sul Selvaggio. Il primo numero del Selvaggio esce il 13 luglio 1924, poco più di un mese dopo l’omicidio Matteotti e nel pieno delle agitazioni che ne seguirono. Tanto per ricordarlo Matteotti aveva pronunciato alla camera un discorso contro la politica fascista, caratterizzata da brogli elettorali, intimidazioni e sistematiche violenze contro le opposizioni. Proprio in quel momento all’interno del fascismo era in corso un’opera di normalizzazione voluta soprattutto dai fiancheggiatori che comportava il congedo della parte più violenta del fascismo stesso: quello provinciale, che traeva la sua forza dalla violenza delle squadre La morte del deputato socialista aveva portato il paese a prendere le distanze dal fascismo e da Mussolini. Gruppi dell’opposizione di centro-sinistra si ritirano sull’Aventino rifiutandosi di partecipare ai lavori del parlamento, ampi strati della borghesia che avevano sostenuto il fascismo rimangono disorientati, anche nelle stesse file del fascismo c’è un certo scollamento. E mentre qualcuno cerca di ritagliarsi una fama di anti fascista vi sono anche isolate aggressioni ai fascisti stessi. E’ in questa situazione che appunto nasce il Selvaggio. Lo scopo della rivista è chiaro fin dal primo numero: difendere e diffondere la fede degli squadristi con violenza e assoluta intransigenza. “Noi non possiamo adattarci ad una tattica pacifista…noi prepariamo le coscienze ed i muscoli per le lotte future, per immancabili vittorie. Pecoroni rincoglioniti e pavidi, li sentivate cantare botte, botte, botte, botte in quantità ed ora hanno messo a riposo il distintivo. Tu Selvaggio rimettiti il distintivo all’occhiello oggi che i tiepidi se lo tolgono, ricanta le tue canzoni ora che non sono più di moda e vantati di essere uno squadrista ora che si maledice lo squadrismo” così tuonava Maccari nel primo numero della rivista. Il nemico come detto è la vecchia classe dirigente giolittiana che si è affermata grazie ad alleanze, compromessi e il cui unico scopo è stato quello di pensare al proprio tornaconto personale. Tale nemico per Maccari è pericoloso in quanto cambia spesso pelle ed è indefinito. L’unica arma a disposizione per debellare questo nemico rimane per Maccari sempre e comunque la violenza, la fermezza e l’intransigenza. Quando poi Mussolini pronuncia alla camera il famigerato discorso del 3 gennaio 1925, quello per intenderci in cui afferma ai deputati sbigottiti che avrebbe potuto fare di quell’aula sorda e grigia un bivacco per i manipoli delle camicie nere, Maccari esulta per la fine dello stato liberale. Inizia ora un’altra battaglia per Maccari ed i suoi selvaggi: ora i nemici sono i normalizzatori, ovvero i fascisti che cercano di contaminare il movimento con i vecchi sistemi. Maccari pretende in nome del fascismo delle province, del fascismo rurale, che il movimento continui ad essere rivoluzione e non restaurazione e che abolisca i vecchi sistemi fatti di clientelismo e compromesso. Si comincia a rendere conto che gli stessi deputati fascisti una volta sulla poltrone siano accecati dai grossi stipendi e dalle brillanti carriere. “…molti si sono corrotti, altri addomesticati, uno scetticismo corrosivo si è impadronito di molte anime schiette. In generale i fascisti deputati si sono allontanati da noi, dalla sana provincia, dal fascismo rurale e selvaggio. Non ci intendiamo più…” Maccari si comincia a rendere conto che in realtà Mussolini con il discorso del 3 gennaio non annunciava la sperata seconda ondata di violenza auspicata dai selvaggi, ma l’inizio di un periodo di normalizzazione, ma non nel senso di un ritorno alla normalità, che equivaleva a dire legalità, ma l’inizio di un regime autoritario. Le leggi fascistissime del 1925, quelle per intenderci dove partiti e sindacati dell’opposizione sono messi fuori legge e dove il ricorso alla censura è sempre più utilizzato portarono il PNF ad una decisa centralizzazione con la conseguente emarginazione dei quadri provinciali. Da quel momento Mussolini, per reprimere le opposizioni, non si avvarrà più della complicità delle squadre fasciste, ma agirà attraverso le istituzioni, per così dire legalmente attraverso prefetti, carabinieri e riprendendo l’opera normalizzatrice interrottasi per qualche mese Ma anche se frustrato e deluso il fascismo del Selvaggio non si rassegna ad andare in pensione ed anzi nonostante tutto si sperava che prima o poi il duce riprendesse la marcia. E’ significativa a questo proposito la traduzione poetica di questo stato d’animo nei seguenti versi di Maccari:
Malinconico il tuo destino O squadrista dei giorni ardenti Una seggiola e, un tavolino Giunta, sindaco e componenti
O squadrista tutto è finito È passata la fantasia Tutto il mondo si è rammollito Non più botte e larga amnistia
O squadrista ti si stringe il cuore Quando al fascio fai una capata I fascisti dell’ultim’ore Gente lurida e disprezzata Si dividono posti e onori I più vecchi son tutti fuori E nessuno li può più vedere
Ma la sveglia fuori ordinanza Te la suonerà Mussolini Allora con nuova baldanza marcerai oltre i confini
La battaglia contro i normalizzatori prosegue a suon di slogan contro il clientelismo, il trasformismo ed il carrierismo, malattie che dilagano lungo i corridoi dei palazzi del potere. Maccari non risparmia neppure Farinacci Farinacci era stato ai tempi dello squadrismi il ras di Cremona e dopo l’omicidio Matteotti il Selvaggio non aveva mancato di esaltarlo con lodi ed esortazioni visto che proprio Farinacci sosteneva la seconda ondata e continuava a portare avanti una politica intransigente ed estrema. Dopo la nomina a segretario nazionale, Farinacci si rivelò rozzo, intrigante, prepotente, esibizionista e mitomane così come tanti altri ex squadristi entrati a far parte delle gerarchie del partito. Allora Maccari prese le distanze da lui e dalla sua politica ormai insensibile alle istanze provinciali e dopo averlo ripetutamente criticato per le sue pose da superfascista, lo rappresentò in caricatura rendendolo ridicolo. La caricatura era, infatti, accompagnata da una poesiola satirica:
Farinacci, Farinacci Così non ci piacci
Parlar sul novecento Non è del tuo talento
Eri molto più bello Quando usavi il manganello
Questa decisa presa di posizione da parte della rivista costò cara a Maccari e compagni: quel numero del giornale fu sequestrato. Ormai però il movimento fascista si è trasformato in regime ed è in quest’ottica che nasce il Selvaggio post squadrista. Maccari vede che la normalizzazione non si limita ad accantonare i poco ortodossi manganello e olio di ricino, ma si adopera al recupero di uomini e metodi del vecchio ordine Così Maccari decide di dare una svolta alla sua rivista che da politica diviene principalmente rivista d’arte. Quando nel marzo del 1926 egli assume la direzione unica del Selvaggio apre il primo numero con un articolo intitolato “Addio al passato”. Qui si afferma che la battaglia dell’intransigenza è finita perché “noi sentiamo bene che oggi non è permesso a chiunque fare politica. Col fascismo la politica è arte di governo, non di partito” Sotto questa affermazione si riporta la seguente didascalia: “Il Selvaggio ha l’onore di far presente alla propria spettabile clientela che a partire dal prossimo numero, la politica verrà relegata nella quarta colonna della quarta pagina. Ora non c’è che l’arte espressione suprema dell’intelligenza d una stirpe” Tutto ciò non significa affatto che la battaglia politica è finita, anzi. L’arma con cui Maccari combatte il malcostume, il carrierismo, la malapolitica non è più l’articolo giornalistico, ma la satira che appare talora sottoforma di poesiole, talora sotto forma di disegni, satira che è arma molto più affilata a tagliente dell’articolo politico. Ma l’irritazione verso le gerarchie non tarda a ricomparire; Maccari, sempre più disilluso si rende conto che i posti di comando non sono assegnati seguendo un criterio meritocratico e spara di nuovo a zero:
Chi donne procura Carriera ha sicura
Sia fatto arrosto Chi si è messo a posto
E poi “se non sei imboscato, massone, ricattatore analfabeta o fesso pretendi pure di far carriera?” Ma la svolta artistica riesce comunque a prevalere, ci sono dei numeri della rivista dove la politica è a fatica toccata, ma quando ciò accade anche durante gli anni trenta, la figura di Maccari sarà sempre coerente all’ideale rivoluzionario. Qualcuno ha visto il movimento di Maccari come fronda all’interno del fascismo, non fu così. Maccari ha abbracciato in pieno la causa fascista fin dall’origine, è il fascismo divenuto regime in questo senso che ha tradito Maccari. Il Selvaggio è durato vent’anni perché non ha mai messo in dubbio i cardini fondamentali del fascismo, non ha mai discusso le scelte politiche ed economiche del regime, ma ha semmai colpito l’ormai dominante malcostume conformista. Egli si sentirà sempre”difensore della rivoluzione”ovvero custode della carica rivoluzionaria antiliberale, tipica del fascismo della prima ora. Sarà sempre contro ogni istanza normalizzatrice, contro ogni inserimento del vecchio regime, contro ogni tentativo di trasformare il movimento in blocco d’ordine, contro lo spegnersi dello slancio iniziale in un ristagno di conformismo e malcostume., sia sul piano politico che dell’arte e del costume. Maccari dunque fu fascista e fu fascista convinto. La sua critica pungente e ben mirata fu diretta a colpire molti aspetti ed uomini del fascismo, ma non giunse mai a mettere in discussione il fascismo stesso. Come totale fu sempre la sua devozione a Mussolini, “il più salvatico degli italiani”. Lui non aveva tradito la rivoluzione, l’avevano tradita gli uomini che gli stavano accanto e il malcostume insito nei palazzi del potere. Questa incrollabile fede in Mussolini, questo suo a volte ingenuo rimettersi fiduciosamente all’intervento demiurgico del duce, non verranno mai meno nelle pagine del Selvaggio, che spesso finiva per prendere alla lettera gli slogans propagandistici del duce. Basti pensare all’ultimo numero della rivista, 15 giugno 1943. Siamo un mese prima della caduta del fascismo che avverrà il 25 luglio 1943 quando l’ordine del giorno Grandi, approvato dal Gran Consiglio del Fascismo, sfiduciò Mussolini riconsegnando i poteri dello stato al re. Maccari già un mese prima annusa la congiura in atto. In copertina appare la faccia lacrimoso di Edmondo De Amicis. Ne adopera il particolare nome per comporre un distico che dovrebbe mettere in guardia il vecchio duce da coloro che lo circondano e l’avrebbero di lì a poco tradito.
Dai De Amicis mi guardi iddio Che dai De Nemicis mi guardo io
Ed anche quando nel dopoguerra, quando l’eco del selvaggio si era spento, Maccari rimarrà fedele alla sua natura rivoluzionaria ed anticonformista. Anche quando collaborò col Mondo di Pannunzio la sua vena satirica trova sfogo tra i due blocchi antagonisti, quello dell’ideologia comunista e quella del conservatorismo cattolico. Maccari come dimostrano le vignette sul Mondo fu sempre critico delle vanità dei gerarchi vecchi e nuovi dell’alleanza della destra e della sinistra con il clericalismo, impersonato dai suoi grassi e ampollosi monsignori. Anche Strapaese una delle creazioni più originali di Maccari viaggia su questi stessi binari. Il ruralismo strapaesano appare sul selvaggio nel 1927 grazie alla rubrica “cronache strapaesane”. La rivista continua a combattere la sua battaglia politica attraverso la satira, ma con Strapaese la battaglia ha un carattere prevalentemente etico e morale. Mai nel gazzettino ufficiale di Strapaese si accosterà il termine ruralismo ad un aspetto economico, ma sempre ad una strenua difesa della campagna nei confronti della città. Maccari identifica strapaese in un luogo ideale che si trova usando le parole dell’artista “un po’ più su di Siena e un po’ più giù di Firenze”: non dice esplicitamente Colle, ma il riferimento è abbastanza esplicito. Strapaese è il luogo ideale di Maccari dove si esprime il profondo attaccamento alla terra ed al paese e dove si ribadisce il carattere rurale e paesano della gente italiana che discenda dagli antichi romani che usavano con la stessa maneggevolezza la spada e l’aratro. Strapaese rappresenta l’espressione più genuina e schietta della razza. “Salvatico è chi si salva” dice Orco Bisorco pseudonimo di Maccari quando si parla di Strapaese, perché riesce a sottrarsi da stracittà. Stracittà rappresenta tutto ciò che mira a inquinare le tradizioni del mondo rurale su cui si deve fondare l’Italia, è tutto ciò che antepone l’effimero alla sostanza, la finzione alla realtà, la corruzione all’onestà, la sincerità all’inganno: stracittà è l’america. “L’america è entrata nel vecchio pollaio europeo e ha introdotto fra noi tutto il modo di intendere la vita, di vestire, di muoversi, di darsi la mano, di lavorare, di divertirsi. L’america ha comprato dall’Europa le opere d’arte e le ha venduto la schiuma da barba” Quando Federico Agnolotti dice che quel ruscello che Dante chiamava Arno, in un anno qualunque della vita d’Italia, ha specchiato più gloria di tutto il Mississipi da due secoli a questa parte non vuole fare retorica, ma mostrare l’orgoglio di appartenere ad una splendida civiltà di cui hanno fatto parte Dante, Petrarca, Boccaccio, Michelangelo, Leonardo, Machiavelli, civiltà dalla quale i selvaggi prendono spunto per un rinascimento dei costumi che ridia giusta dignità morale. Anche riguardo al problema del lavoro Maccari oppone la visione italiana, umanista a quella americana meccanicista. L’uomo conta molto di più del calcolo freddo, della produzione massima, del taylorismo (Taylor fu il primo che organizzò il modello produttivo basato sul sistema bedaux della catena di montaggio nella costruzione del modello T della Ford), l’uomo avrà sempre un valore superiore alla macchina. L’anima di un solo operaio ha per noi un valore infinitamente superiore al coefficiente di produzione che porta invece all’alienazione e all’appiattimento dell’anima. La produzione in serie ha dei turni di avvicendamento i più rapidi possibile, in tal modo l’operaio vede solo il suo pezzo di lavorazione disgiunto dall’intera opera realizzata. Tutto questo accade a Stracittà dove abbondano le attrazioni che irretiscono i contadini più deboli, che si spostano verso le città non resistono all’aria malsana e si intisiscono. Occorre difenderci da questo urbanesimo combattendo in primo luogo le abitudini che la cultura anglosassone impone come il jazz, il tè delle cinque, il tabarin. Da queste correnti perniciose della civiltà contemporanea dovranno guardarsi soprattutto i giovani, che hanno invece bisogno di modelli culturali ben più radicati e sani soprattutto più sani e veri. Ed ecco allora profilo del perfetto rurale di Strapaese: “gente che ha messo al mondo dei bei figlioloni e mangia accanto alla cucina, beve vino pretto, va a vedere il bruscello e balla il trescone”. Una visione simile può apparire limitativa, ma Maccari si affretta a precisare: “amare la terra ed il paese, custodire le tradizioni non significa impoltrirsi e impiccinirsi entro insormontabili confini, ma trovare, gustare e selezionare gli elementi di cui necessariamente si compone la nostra personalità, per portarli con le opere ad una vita attuale…dare quindi alle cose che si fanno il sapore di tutta una storia e di tutta una civiltà Strapaese ama l’Italia popolana e rurale perché è restia all’influenza di una civiltà dove non si riconosce: l’America scende a suon di dollari, cogli idoli negri, il cocktail, il jazz e il luccichio abbagliante di una civiltà tutta spuma e niente terra, tutta macchina e niente cuore.” La proposta di Strapaese è vera e sentita e come nella battaglia politica Maccari non scende ad accordi con i normalizzatori così nella battaglia etica disdegna profondamente qualsiasi compromesso con una civiltà nociva e pericolosa “mai addomesticarsi ammonisce”. Così si esprime Orco Bisorco paragonando il selvatico cinghiale all’addomesticato porco:
La macchia è la mia patria e qui selvatico Vivo con la cinghiala e i cinghialini Qui trovo amore, pane e companatico Alla città vo in tasca e ai cittadini
Odio il porco, nemico osceno e vile Che da selvaggio s’addomesticò Lasciò le zanne pel brago e il porcile E per finir prosciutto s’ingrassò
E quando Orco Bisorco muore Maccari lo saluta così:
Qui giace Orco Bisorco Che morì da cinghiale Per non diventar porco
Ma la lunga storia del Selvaggio non è fatta solo dalla battaglia politica e da quella etica, anche se il rapporto con Colle in questi due aspetti è più evidente. Il Selvaggio, che è bene ricordarlo cambiò più volte sede (Colle, Firenze, Siena, Torino e Roma), negli anni trenta divenne una rivista di notevole spessore artistico e letterario. E’ in questo periodo che Maccari individua gli ingegni nascenti, gli albeggianti, sia nell’arte che nella letteratura. Si aprono le porte della rivista a pittori come Rosai, Lega, Morandi, Carrà, Semeghini, Guttuso o a scrittori come Tobino, Malaparte, Prezzolini, Ungaretti ed al colligiano Bilenchi. Fu nei numeri del Selvaggio del 1931, nel periodo del Selvaggio a Torino, che Maccari pubblicò a puntate uno dei primi romanzi di Bilenchi “La vita di Pisto”. Lo stesso Bilenchi nel libro “Amici” dice: “Da tutti Maccari ascoltava le aspirazioni e i pareri, a tutti dava i consigli, e quando trovava in qualcuno un po’ di autenticità, di freschezza, di talento, ne era felice. Incitava tutti ad un lavoro continuo e serio. Una volta messosi al lavoro, Maccari aiutava questi giovani a scoprire le proprie attitudini in un campo invece che in un altro, li incitava ad approfondire la loro personalità di artisti e di scrittori. Dietro al suo sguardo ironico, alla parola facile, alle battute sprezzanti, c’è sempre stato in Maccari un uomo pieno di tenerezza, di buon senso di amore per il prossimo” Quando si parla dell’arte nel pensiero di Mino Maccari si superano tutti gli ostacoli di carattere politico ed etico, in quanto l’arte deve mantenersi pura, libera, lontana da qualsiasi forma di interesse e di opportunismo. “Spregevole sarà quel mediocre artista che volesse valersi della sua qualità di iscritto al Fascio per combattere un buon artista. La tessera non dà l’ingegno come non lo toglie”
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